26-02-2004 |
Marchi di origine e indicazione geografiche |
Laura Carola Beretta |
Claudio Dordi |
Le norme sulla protezione del made in Italy contenute in alcune recenti
proposte di legge e in varie disposizioni della Finanziaria tengono conto
solo in parte di un’esigenza avvertita da anni dalle imprese italiane.
Come tutte le norme nazionali, hanno un’efficacia limitata al
territorio italiano. In assenza di accordi internazionali che riconoscano
globalmente la tutela, non garantiscono perciò alcuna protezione
all’estero. Il legame tra bene e luogo di produzione Marchi di origine e denominazioni geografiche sono concetti differenti
che, tuttavia, hanno in comune l’obiettivo di creare un legame univoco
tra un bene e il suo luogo di produzione, al fine di tutelare il
consumatore da una parte e l’industria nazionale dall’altra. Il marchio di origine indica il collegamento fra Stato di
produzione e un bene non alimentare. L’individuazione dell’origine è
resa sempre più difficile dalla dispersione delle fasi di lavorazione in
più Stati: si è reso, pertanto, necessario stabilire regole tecniche per
individuare quali, fra le operazioni di trasformazione, sono rilevanti per
l’attribuzione dell’origine al prodotto finito. Si utilizzano per
questo le cosiddette regole di origine, disposizioni normative già
applicate per discriminare il trattamento doganale di prodotti importati
da Stati diversi e caratterizzati da lavorazioni svolte in più paesi. Decidere che le lavorazioni sul tessuto cinese effettuate in Italia
sono sufficienti a ottenere l’origine italiana della cravatta è solo
parzialmente giustificato da ragioni economiche. Più rilevante, invece,
è la forza negoziale che ogni paese esprime spinto dalle lobby produttive. Marchio obbligatorio o volontario? L’assenza di armonizzazione e l’obbligo di conformarsi alle norme
dei vari paesi importatori espone gli imprenditori all’onere di
marchiare il prodotto con origini differenti a seconda del paese in cui
viene esportato. A ciò si aggiunge il rischio di non vedere riconosciuta
l’etichetta made in Italy a molti prodotti italiani, non completamente
ottenuti nel nostro paese. È una proposta che sottopone all’attenzione degli Stati
l’alternativa tra l’obbligatorietà e la volontarietà di un marchio
di origine. In altri termini, le regole comunitarie potrebbero rendere
obbligatorio per ogni prodotto messo sul mercato comunitario il requisito
della marchiatura. O, viceversa, limitarsi a stabilire un quadro normativo
di riferimento per il produttore che desiderasse marchiare i propri beni. Zone geografiche per gli alimentari Le denominazioni geografiche indicano il collegamento fra una zona
geografica o uno Stato e un determinato prodotto alimentare al fine di
identificarne l’origine, la qualità e la reputazione. Secondo la Comunità europea, i problemi potrebbero essere risolti con
l’istituzione di un registro multilaterale nel quale elencare
tutte le indicazioni geografiche meritevoli di tutela per tutti i
prodotti, senza prevedere una tutela maggiore per vini e alcolici, come
invece stabilito dal Trips. Questa posizione non è condivisa dagli Stati
Uniti i quali, peraltro, hanno presentato un ricorso alla Wto proprio
nei confronti della normativa Ce a tutela delle indicazioni geografiche,
contestandone l’illegittima discriminazione che queste attuerebbero nei
confronti dei prodotti stranieri. Fully made in Italy difficile da trovare In questo quadro, l’istituzione di un marchio fully made in Italy,
prevista da una proposta di legge del gruppo Ds, auspicabile per i
prodotti alimentari, solleva numerose perplessità riguardo ai prodotti
industriali. Le questioni sollevate, unitamente a quelle sull’usurpazione e alla contraffazione
dei marchi, possono trovare soluzione efficace solo con accordi
multilaterali che stabiliscano una disciplina comune e un riordino
generale del coacervo di disposizioni di diversa fonte attualmente
esistenti. |